13 è arrivato 8 stagioni dopo Dexter, e tutto quel tempo a Miami mi ha fatto sentire un po’ persa, dovevo cambiare aria. L’entroterra della west-coast californiana sembrava la location perfetta: piccola realtà di provincia, i ragazzi che vanno a scuola e si odiano, genitori quasi sempre all’oscuro di ciò che fanno i figli…
Ma soprattutto un suicidio e 8 audiocassette lasciate a 13 co-protagonisti che vengono raccontati come le tessere di un puzzle di morte a cui tutti hanno giocato. Perché l’intera serie si basa sull’assunto che un gesto estremo diventa una via di uscita obbligatoria e quasi glorificante, in un ambiente di figli di papà e di gerarchie scolastiche in cui si ha ancora questa parte da recitare: l’ultima carta da giocare.
E come su un palco Hannah Baker mette in scena il disegno del suo destino, la mappa concettuale delle sue ragioni, la denuncia di tutti i colpevoli. Tranne uno: sé stessa.
Ho letto molti articoli che ne sconsigliano la visione ad un pubblico particolarmente sensibile, a persone che hanno sofferto e soffrono di malattie mentali. E su questo non posso esprimermi perché non conosco la malattia mentale. Ma ho visto la serie.
Non sembrerebbe mancare nulla che non sia stato ampiamente trattato nei teen drama di maggior successo del passato. La morte è un tema ricorrente nelle serie TV per ragazzi perché l’adolescenza è e rimane un mondo spaventosamente aperto ad ogni opzione, dove il più piccolo gesto può avere effetti catastrofici: la pazzia di Andy McFee e la morte di Abby in Dawson’s Creek, la follia di Oliver e la terribile fine di Marissa in OC. Il costante processo autodistruttivo di Chuck Bass e Serena Van Der Woodsen in Gossip Girl.
Quello che qui viene completamente meno, è la patina holliwoodiana che tende a rendere i protagonisti meravigliosamente affascinanti, mentre il baricentro della trama viene drammaticamente spostato dall’interazione giovanile all’introspezione individuale.
I protagonisti ricordano compagni di classe che abbiamo avuto anche noi, che forse non erano i capitani della squadra di football della scuola ma certamente erano i più in vista per i corridoi. Le vicende e gli screzi raccontano delle piccole cose che accadono tra amiche o amici all’inizio di una relazione e la voce narrante di Hannah è nera, spenta. Esprime un punto di vista personale, soggettivo e al limite al persecutorio che si autoassolve per ogni errore commesso e che si libera completamente della responsabilità del suo gesto rimettendola esclusivamente nelle mani di chi con lei ha avuto interazioni anche solo superficiali e a cui attribuisce lo stesso peso di chi invece, nei suoi confronti, si è reso artefice di violenze molto più gravi. Ed è questo che forse la rende una delle protagoniste più reali degli ultimi anni e che meglio inquadra il senso di smarrimento e di punti fermi in una società che ti inchioda per una foto e che scegli di punire come si faceva una volta, con dei nastri, un registratore e un po’ di sensi di colpa, vittima ed emblema di un futuro che non sa correre alle nuove velocità, e che si appoggia ad un passato che non ha neanche mai vissuto.
Egoismo adolescenziale. Superficialità. Violenza. Leggerezza. Bullismo. Rancore, rimpianti e mancanza di coraggio. Totale assenza della famiglia. Fragilità: solitudine. Tutto è raccontato con apparente normalità nella pur evidente complessità psicologica della trama, costruita all’interno di un’istituto scolastico in cui ogni professore ha centinaia di studenti e non sa ricordarne il volto se non si tratta di quello “giusto”. Un mondo in cui le dinamiche adulti-ragazzi sono completamente stravolte e rompono qualsiasi equilibrio perchè solo l’io cresce come definitivo polo di trazione e di attrazione e della trama, e si consacra prepotentemente a vera, unica, memorabile e immortale guest-star.
Poi è vero. Ho fatto fatica a stare dalla parte di Hannah e a capire fino in fondo il suo gesto.
Ma non ho 16 anni.
E anche questo è vero, oggi.